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Quella, il racconto di Domenico Rosa finalista al premio internazionale Michelangelo Buonarroti

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Immagine articolo - ilsitodiFirenze.it

Dopo aver ottenuto il Fiorino d'oro l'anno scorso al premio Firenze, quest'anno il nuovo racconto del nostro Domenico Rosa, tra i fondatori del Sito di Firenze, arriva tra i finalisti al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti.

 

Uno scritto sospeso tra passato e presente che mette a nudo l'anima dell'autore. Un amico caro prima di essere un collega che abbraccia con tutto se stesso Dio e si ritrova a fare i conti con la sua fragile ed alta umanità che non viene mai meno, fatta di ricordi, sensazioni che tornano e ritornano e che portano nostalgia ma non scalfiscono la convinzione di appartenere totalmente a Qualcosa di altro. Perché come ci ricorda l'autore ci sono persone che hanno il cuore troppo grande per amare una persona sola.

Matteo Calì

 

 

Quella

 

Secondo entrò in classe con un sorriso mai visto, era felicissimo, pieno di una gioia indescrivibile che solo l’amore sa dare. Quel ragazzone alto, di buona famiglia, forte e generoso aveva conquistato la più bella del paese, Emira.

A Roccaraso parlavano tutti di loro. La bella dal nome esotico e principesco, che aveva ceduto alle lusinghe del giovane con un nome non certo da eroe, ereditato dal nonno paterno. 

Condivise con noi compagni la sua impresa, con noi studenti, si fa per dire, del geometri, un po’ rozzi, un po’ selvatici con la sigaretta sempre in mano e dal bicchiere facile. 

Usciti di scuola ci portò con lui a prendere la nuova fiamma ai cancelli del Liceo Scientifico ‘Teofilo Patini’, pittore di Castel di Sangro, la cittadina che con gli anni avremmo imparato ad apprezzare ma che nel frattempo detestavamo. Lungo il tragitto ci descrisse la sua principessa, occhi chiari, capelli castano chiari e come non smetteva un attimo di ripetere bella, bella, bella. 

Iniziarono ad uscire alcune ragazze, la mia attenzione fu catturata da una ragazza dagli occhi verdi, capelli a caschetto, sorridente. Chiesi a Sec facendogli un cenno: “È lei?”. Lui rispose quasi offeso: “Scherzi, adesso vedrai Emira, altro che quella”. Arrivò dopo nemmeno un minuto, effettivamente era molto bella, alta, atletica, fu perfino gentile con noi barbari.

Salutò per ultimo Alberto, anche lui di Roccaraso, e scherzarono un po’, ovviamente si conoscevano. Alberto come al solito tanto per farsi riconoscere prese una cartaccia dalla tasca e la buttò a terra dicendo: “Che fa? Tanto stiamo a Castello!”. E tutti noi a ridere sotto lo sguardo contrariato di Emira. Ero molto contento per il mio amico.

Ma adesso pensavo a “quella”, la ragazza che credevo fosse Emira, ai suoi occhi pieni di luce. Maria Angela, la mia migliore amica, diceva sempre che gli occhi chiari dopo un po’ annoiano ma io pensavo: “Forse vale solo per i maschi, Quella è uno schianto”.

 

Dopo aver salutato gli altri mi avviai verso la stazione per prendere il treno e tornare a casa. Sembrava di stare nel West con questo trenino che attraversava una piccola e curvosa ferrovia lungo il corso del Sangro e ci riportava a Quadri, al confine con il Molise. Il nostro paesino non aveva una bella fama, eravamo considerati attaccabrighe e poco di buono dal resto del circondario, forse peggio di noi erano solo gli abitanti di Pescasseroli, gente tosta del Parco Nazionale.

Nel nostro scompartimento non entrava nessuno, ricordo che quelli di Ateleta, paese palindromo, rimanevano in piedi tra uno scompartimento e l’altro senza entrare. Eravamo temuti e rispettati pur non essendo tanti, visto che la maggior parte dei nostri studiava a Lanciano. Ma la storia ci precedeva, ci custodiva e rimanevamo separati dal resto del mondo.

 

“Chissà come si chiama Quella?”, continuavo a pensare. Non riuscivo a togliermela dalla testa. A metà tra Venere e Artemide, incantevole come la dea della bellezza ma fiera come la dea della caccia. Viso affilato, naso scolpito, labbro superiore appena accennato, fine, elegante e quel sorriso che ti entra nel cuore. E poi quel neo sulla gota destra messo lì da Dio in persona. Mi stavo rincoglionendo, innamorarsi era da femminucce, io ero un duro, un ribelle.

Decisi di non pensare più a lei, rubai una bottiglia di Porto da casa e la bevvi con Vincenzo e Antonello, compagni di sbronza dell’epoca. Il nostro sogno era la libertà, non potevamo essere banali come tutti gli altri che si innamorano, si sposano, fanno figli, lavorano, invecchiano e crepano.

No, noi lottavamo contro la quotidianità, vivevamo ogni momento come fosse l’ultimo. Volevamo accumulare più esperienze possibili. Il nostro messaggio al mondo era: “Noi siamo capaci di tutto!”.

 

In tutto questo l’esame di maturità si avvicinava. Nel mio delirio di onnipotenza e ribellismo a 14 anni avevo scelto l’istituto tecnico per geometri, una scuola che non c’entrava niente con le mie attitudini, anni dopo mi sarei laureato in storia, per distinguermi dai miei tre fratelli che avevano fatto il liceo scientifico. Ero un somaro patentato, Pinocchio al mio cospetto sarebbe stato un premio Nobel, ma ad essere sinceri della favola di Collodi io ero più simile a Lucignolo, l’amico che il burattino chiamava “Anima grande”.

 

La mia furbizia, dettata dalla mediocrità, mi portava a contare quanti erano gli studenti che se la passavano peggio di me e a dire soddisfatto: “Ce ne sono almeno sette, non possono bocciare otto persone su venti”. Ma quell’anno era diverso, la maturità è il primo impegno arduo della vita di un giovane e anch’io così maledettamente pigro qualcosa dovevo fare.

A giorni ci sarebbe stato il sorteggio della lettera che avrebbe dato inizio agli orali. Se fosse uscita la “R”, l’iniziale del mio cognome, sarei stato spacciato. Come al solito, ogni volta che mi trovavo in difficoltà pregavo. Avrei dovuto provare solo vergogna a rivolgermi a Dio visto che non lo rispettavo minimamente ma anche quella volta mi aiutò. Uscì la lettera “S” e ad iniziare sarebbero stati quelli della sezione “B”. Io appartenevo alla “A” e sarei stato il terzultimo.

Avevo quasi un mese davanti per prepararmi. Grazie Signore! Riuscii a cavarmela. Presi il mio 36 (all’epoca era il minimo, il massimo era 60) e mi iscrissi alla Facoltà di Lettere di Firenze corso di laurea in Storia. Quando ero al secondo anno, il Direttore, un amico molto simpatico e pieno di donne, mi chiamò per dirmi che a Firenze era arrivata una sua compagna a studiare.

Ci mise in contatto e nemmeno a farlo apposta abitava a pochi passi da me: entrambi nei pressi di piazza Indipendenza. L’indomani, prima di pranzo, la incontrai al bar Santa Caterina di fronte la chiesa di Nostra Signora. La luce di quegli occhi verdi penetrò ancora una volta nel profondo del mio cuore. “Piacere, Gaetana”. “Domenico, molto lieto”. Gaetana era Quella. Già mi piaceva e continuò a piacermi sempre più. Anziché il solito caffè, prendemmo due spritz. Mi annoiavano le donne astemie, lei era la donna della mia vita.

 

Due abruzzesi che si ritrovavano a Firenze, io che ritrovavo Quella dopo due anni dalla prima volta che l’avevo vista. Era un segno. Gae mi ricordava una mia vicina di casa. La signora Mema, anche lei di Castel di Sangro, che aveva sposato un commerciante di Quadri, Renato. Era una donna meravigliosa, elegante, fine, sempre gentile. Noi tutti quadresi ci rivolgevamo a lei con rispetto, chiamandola “Signora”, la Signora di Renato. Mai nome fu più appropriato.

Pensavo che potevamo replicare questo connubio quadrese-castellano, io un po’ come Renato, spigoloso, burbero ma in fondo buono e lei così maledettamente bella, elegante, luminosa, splendida. Finimmo il nostro aperitivo e prima che lei pagasse, l’afferrai per un braccio e le dissi: “Io non faccio pagare nemmeno le brutte”. Lei sorrise con quei denti perfetti, “come greggi di pecore tosate”, recita il Cantico dei Cantici e poi continua “come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia”.

 

Ci salutammo e ci ripromettemmo di vederci presto. Dopo qualche giorno però arrivò la notizia che l’istituto di suore dove alloggiava la donna che mi faceva impazzire vendeva a dei privati che avrebbero trasformato lo studentato femminile in un ostello.

Gae impegnata a trovarsi un altro posto in cui vivere non rispondeva ai miei messaggi ed io che all’epoca mi nutrivo di pane e orgoglio non la cercai più e addirittura non risposi nemmeno a un paio di sue telefonate. Tornai al mio giacobinismo, tornai a lottare contro la quotidianità, la mia nemica.

Volevo ergermi sopra le macerie della banalità degli altri che ai miei occhi conducevano vite non vissute, schiavi di lavoro, affetti, regole. Io bastavo a me stesso, o meglio credevo di bastare a me stesso. Iniziai una vita di eccessi da vero rivoluzionario. Sartre diceva che guidare i popoli o ubriacarsi in solitudine fossero in realtà la stessa cosa. Io scelsi la seconda e prima che fosse troppo tardi capii che la coerenza del rivoluzionario è il suicidio.

 

Così quando si tocca il fondo puoi restarci o puoi risalirlo, chiesi ancora aiuto al Signore e lo risalii. Avevo perso tanti amici a causa dei miei atteggiamenti da superuomo. Ma non ero solo. La mia famiglia non mi aveva mai abbandonato. Ripartii da quello che avevo. In un anno feci sette esami e infine mi laureai. La mia tesi divenne un libro: “Fiume dannunziana. Tra irredentismo e fantasia”.

 

La svolta ci fu quando iniziai ad avvicinarmi al Signore e cercare di restargli accanto, nel frattempo avevo anche cambiato idee politiche. Gli studi mi avevano aiutato. A livello storiografico ero su posizioni che oggi si chiamerebbero con una punta di disprezzo revisioniste. Iniziai quindi a militare nella Destra Giovanile in una università difficile e piena di residui culturali del tempo della contestazione come quella di Lettere di Firenze.

Ma la mia vita non era nemmeno quella. Sentivo di avere un rapporto speciale con Gesù, e avrei dovuto trovare il coraggio di coltivarlo, di lasciare la mia professione che era quella di giornalista e dedicarmi completamente a Lui. Feci mia la domanda di Sant’Agostino: “Che vai cercando piccolo uomo al di fuori del tuo Dio?”. Il vescovo d’Ippona esortava a cercare Dio, unirsi, stringersi alla sua volontà. Solo così avremmo trovato la serenità e la pace in questa e nell’altra vita.

 

Avevo poi un esempio concreto che potevo seguire molto da vicino ed era Alberto, sì, proprio quel matto come me che buttava le carte a terra quando andavamo a scuola a Castel di Sangro. Era diventato frate cappuccino e ora si apprestava ad essere ordinato sacerdote. Emira e Secondo, che avevano avuto un bel figlio, Amedeo, nome come al solito ereditato dal nonno paterno, lo aspettavano affinché benedicesse le loro nozze.

 

Alberto, l’anno della maturità non ce la fece, ma ora era pieno di Spirito di Santo, il capo dei ribelli era diventato il migliore di noi perché aveva scelto la parte migliore, i suoi occhi grandi erano laghi pieni d’amore. Quando lo andai a trovare ad Assisi mi disse: “Una vita perfetta è una vita in cui ci sono stati tanti cambiamenti, non avere paura”. Sentii la voce di Dio in maniera limpida e soave. Decisi di seguire l’unico Maestro finito sopra la croce per noi, che ci insegnava ad essere dèi nell’umiltà. Lasciai Firenze e mi trasferii a Roma per vivere la vita religiosa. Diventai missionario del Sacro Cuore di Gesù.

Durante il noviziato in Irlanda, nel giorno in cui potevamo collegarci ad internet, mi apparve Gae tra le persone che potevo conoscere su FB, una foto profilo in bianco e nero in cui io riuscivo lo stesso a vedere nitidamente i suoi occhi verdi. Avrei voluto tirare due schiaffi a Maria Angela… “gli occhi chiari dopo un po’ annoiano”. Annoiano chi?? Erano anni che quegli occhi mi seguivano ed ogni volta che li vedevo mi entravano nel cuore, mi provocavano un moto nelle viscere. Padre Armando, il mio formatore, mi diceva sempre: “Quando vedi una bella donna loda il Signore”.

Sì, ha ragione il caro padre, ma in quel momento provavo tanta nostalgia. Per farmi forza pensai a uno dei nostri incontri formativi in cui avevamo parlato della bellezza come “un grande aiuto per la fede, e noi come Agostino – il padre era uno studioso del Santo africano - siamo chiamati a passare dal frammento di bellezza alla Bellezza. Il nostro cuore è troppo grande per amare una persona sola”.

 

Approfittando del mezzo tecnologico le scrissi e le raccontai senza giri di parole della mia nuova vita e di come non era mai stata così tanto bella. Mi rispose immediatamente: “Che bella sorpresa... anche per me è un piacere... Sono contenta che tu stia bene!!! Io sono diventata avvocato sia in Italia che a NYC pertanto lavoro sei mesi qui e sei mesi in America... In bocca al lupo per tutto!!! E mi raccomando intercedi per me! Baci”.

 

Curioso come sono sempre stato (per studiare storia bisogna esserlo) subito andai a sbirciare tra le sue foto. Era incantevole, poesia allo stato puro. In una foto si trovava nell’isola di Santorini in acqua, con un pareo e un velo sul capo. A memoria citai nella mia mente ‘A Zacinto’ di Foscolo: “Del greco mar, da cui vergine nacque Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso”.

 

Il confratello anziano suona la campana, tra cinque minuti inizia il vespro. Vado in cappella. Nelle mie preghiere metto anche lei, la Sua creatura più bella.

 

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