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noir

Folklore e Tradizione: 'L’incubo Pandafeca: la Strega del sonno'

Dopo la racconta 'Pezzi' pubblichiamo l'ultimo racconto del nostro 'vecchio' cronista Domenico Rosa
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Pandafeca

Il nitrito dei cavalli e delle giumente era assordante, sembrava che stesse arrivando un terremoto o qualcosa di simile. Intorno alle recinzioni dell’azienda agricola ‘La Poiana’ riecheggiava un suono sinistro di animali impauriti. Pietro, il proprietario della fattoria, sente tutto ma è stranamente immobilizzato dentro il letto. Vorrebbe correre dalle sue bestie ma non ce la fa. Prova ad alzarsi ma niente, qualcosa o qualcuno lo blocca. E’ come incollato alle lenzuola. Paralizzato. Cerca di chiamare Rosa, la moglie, la chiama ancora ma il fiato non esce. Qualcosa lo soffoca. Non ricorda che la donna che ha sposato cinque anni prima è andata via per qualche giorno a trovare la madre malata. E’ solo e disperato. Nel buio della stanza vede di fronte a sé due occhi chiari, un’immagine affascinante e sinistra, che lo terrorizza. Colto dalla disperazione riesce solo a sputare contro quel bagliore. La mossa si rivela vincente, la figura femminile a quel punto svanisce. Si sveglia, infila i pantaloni, il vecchio pastrano verde e corre nella stalla. I cani all’udire la voce del padrone si tranquillizzano, vacche e pecore, dopo qualche frustata, anche. Solo i cavalli e le giumente non smettono di agitarsi. Dopo diverse ore, aiutato da funi e fruste, Pietro riesce a riportare la calma tra i sette equini. Affaticato e sudato sta per tornare in casa, il sole ormai occhieggia all’orizzonte, quando ad un tratto scorge con la coda dell’occhio tra la criniere delle tre giumente alcune treccine. La prova del passaggio della strega. L’uomo, pur abituato a non scomporsi mai, vacilla. Senza perdere tempo tira fuori il coltello dalla tasca interna del pastrano e con un colpo secco taglia i filamenti increspati.

 

Nel breve tragitto che lo riporta a casa è pieno di pensieri, non sa dare una spiegazione a quanto accaduto durante la notte. Una volta entrato nella grande colonica è quasi tentato di rimettersi a letto per riposare un po’, ma poi pensa: “è meglio di no, meglio mangiare e riprendere energia”. Prende dalla dispensa formaggio, pane e vino. Mentre sorseggia il potente rosso torna indietro con la mente alla sua infanzia quando la bisnonna Carmela gli raccontava di streghe, di malocchio e di rimedi per allontanare le donne del male. Non aveva mai dato peso a tutte quelle favole, per lui anche la religione era solo folklore. Adesso però non faceva altro che pensare alla storia del prozio Carmine, il fratello di nonno Pietro, morto di stenti perché, gli diceva l’anziana progenitrice, veniva mangiato da una ‘magara’ che con l’inganno era riuscita ad entrare in casa e a violare le sacre mura domestiche benedette ogni anno durante la Quaresima da padre Simeone. I fatti risalivano al mese di marzo del ‘47, una signora non molto alta, chiara di carnagione e di occhi si era presentata al portone dell’attuale abitazione di Pietro. All’epoca nella casa vivevano 6 persone: Carmela e i cinque figli Pasquale, Nino, Carmine, Elsa e Maria. Il marito Ernesto invece si trovava in “Alt’ Italia” per lavoro, aveva dovuto lasciare la sua famiglia in Abruzzo per far fronte ai problemi del dopoguerra. Purtroppo nelle remote contrade del Mezzogiorno fame e disoccupazione si respiravano quotidianamente.

 

Carmela era intenta a preparare il pranzo, una voce fuori dall’uscio richiamò la sua attenzione: “Bona gent tenet nu poc d’ pan. So puverell” (Buona gente avete un pezzo di pane. Sono tanto povera). Quando le persone si presentano come povere e sventurate conquistano subito la nostra fiducia. La giovane si mostrò molto ossequiosa verso la madre di famiglia, le rivolse parole di augurio e le baciò ripetutamente le mani. Così Carmela, impietosita, corse a prendere uova, formaggio e qualche frutto. Nel frattempo la ragazza dagli occhi blu senza entrare in casa fece scivolare dalla sua bisaccia un gatto persiano che andò dritto nella camera dei maschietti infilandosi sotto il letto più vicino alla finestra, quello di Carmine. Dopodiché prese le provviste e con la solita finta gentilezza ringraziò e riprese il suo cammino. I corruttori di anime infatti non possono mai permettersi di sorvolare sulle buone maniere e insinuano in noi il tarlo che il povero sia per forza anche buono. La notte nella casa successe qualcosa di strano, il gatto, che per tutta la giornata era stato sotto il letto, uscì e prese forma di donna. Era l’incubo con gli occhi chiari che soffocava i dormienti: “La Pandafeca”. La vittima prescelta fu il piccolo Carmine, che da quel momento cominciò ad avere problemi di ogni sorta: inappetenza, mal di testa, convulsioni e crisi respiratorie. Durante la notte la strega lo stremava, gli privava della sua energia e della sua vitalità. Il gatto persiano non era un semplice felino ma il corpo, il varco che permetteva a quella giovane di tornare al calar delle tenebre, il passaggio dall’esterno alla stanza. Dopo soli tre mesi il bambino morì. Quando il papà Ernesto tornò per il funerale, ispezionò a fondo la camera dei figli e ricurvo tra le pieghe di una coperta trovò il gatto. Sembrava quasi lo stesse aspettando. La bestia digrignò i denti e saltò fuori dalla finestra infrangendo i vetri. All’aria aperta il felino prese sembianze umane, si girò e salutò Ernesto con fare ammiccante. In quell’istante il povero emigrato riconobbe Sofia, la prima donna che tempo addietro gli aveva fatto battere il cuore. In verità, prima che si sposasse con Carmela, era innamorato pazzo della ragazza dagli occhi azzurri e dalle labbra rosse, la fanciulla che faceva impazzire tutto il paese e aveva scelto lui. Qualcosa però turbava l’uomo, sentiva che Sofia nascondeva un terribile segreto.

 

Ogni notte la giovane usciva di casa accompagnata dalla madre vedova e insieme rientravano un attimo prima che il sole sorgesse. Ernesto le aveva viste con i suoi occhi, aveva provato a seguirle ma dopo 300 metri, all’altezza del noce di fronte alla salita del vecchio forno perdeva le loro tracce, sentiva per pochi secondi zoccoli di cavalli imbizzarriti e poi silenzio. Si diceva che la donna avesse soffocato nel sonno il padre di Sofia, ma Ernesto non aveva mai creduto a quelle chiacchiere di paese. Dopo la scoperta delle uscite notturne, i giorni successivi quando la baciava sentiva nelle sue labbra un sapore strano, dolciastro, come di sangue rappreso. Cominciò ad essere terrorizzato e disse all’amata di non poter più stare con lei perché voleva entrare in convento. Aveva scoperto la sua vocazione, sarebbe diventato - disse alla giovane incredula e addolorata - un frate cappuccino. In realtà non ebbe il coraggio di dire la verità e per qualche tempo si trasferì in un posto di mare da uno zio che aveva una locanda. Anche Sofia lasciò il piccolo borgo che a entrambi aveva dato i natali e nessuno seppe più nulla di lei e della madre. A distanza di anni però, a guerra conclusa, la giovane dagli occhi chiari era tornata a bussare alla sua casa, aveva scoperto la verità sul suo promesso sposo ed era tornata per vendicarsi. Ormai era chiaro che l’affascinante Sofia apparteneva alla vecchia religione che ancora si tramandava nei boschi dell’Abruzzo, il culto di Aradia, l’antica dea venuta sulla terra per insegnare ai contadini le pratiche magiche ed emanciparsi finalmente dalla spiritualità cristiana. Aradia, sposa e sorella di Lucifero, praticante l’incesto e l’assassinio, i tratti più abominevoli del male.

 

Pietro non sa che nel suo albero genealogico si è abbattuta una terribile maledizione e dopo aver inspiegabilmente saltato una generazione la strega del sonno è tornata ad accanirsi sulla sua famiglia. In effetti a detta dei parenti lui somigliava molto al bisnonno Ernesto, l’uomo che Sofia non aveva mai smesso di amare. Pietro dopo la notte insonne continuava a pensare a quello che aveva vissuto ma soprattutto a quella figura femminile, a quegli occhi chiari, belli e allo stesso tempo terrorizzanti della Pandafeca. La camera da letto dell’imprenditore agricolo corrispondeva a quella dove un tempo avevano dormito i figli maschi di Carmela, durante la ristrutturazione della casa abbandonata Pietro si era liberato di tante suppellettili, tra cui una statua di San Michele Arcangelo con ai piedi il demonio sconfitto. Associava crocifissi e icone a forme di superstizione, tanto più che dopo essersi sposato in chiesa per far contenta Rosa, non ci aveva più messo piede e approfittando dell’assenza della moglie di due giorni prima non aveva aperto al sacerdote venuto per la tradizionale benedizione pasquale.

 

Ormai la colonica degli avi non è più protetta, Sofia può tornare indisturbata a penetrare l’intimità dell’antica dimora e a portare la morte.

 

Pietro, stanco e provato, torna nella stalla, il suo sguardo diventa subito terrorizzato, le giumente sono accasciate a terra prive di vita, sviscerate, le loro criniere piene di treccine. Gli altri cavalli invece sono scomparsi. Senza perdere tempo seppellisce le carcasse degli animali e chiama al cellulare il fratello Guglielmo. Insieme cercano di capire cosa sta accadendo, Pietro pensa a qualche vendetta degli zingari di Lanciano per un vecchio affare non concluso, non dice nulla di più al fratello maggiore e reprime le sue sensazioni di terrore. Cerca una spiegazione razionale a quanto accaduto.

 

Guglielmo è una testa calda, un fascio di nervi, magro e dall’aspetto selvatico con alle spalle traffici per nulla leciti. Parte immediatamente per Lanciano, dopo mezz’ora è al bar della stazione al cospetto di Gennaro, capo di una famiglia rom del capoluogo frentano. Bevono insieme e riceve le informazioni che sta cercando, i cavalli li ha acquistati lui da una commerciante con gli occhi chiari di nome Sofia. Da qualche tempo la donna vive in un campo nomadi tra Montesilvano e Pescara, conosciuta come ‘la regina degli zingari’. Gennaro è disposto a restituirgli i cavalli allo stesso prezzo dell’acquisto “Tu si come nu ciavò pe’ me” (Sei come un figlio per me) dice a Guglielmo prima di abbracciarlo. La testa calda passa a prendere due amici fidati prima di proseguire alla volta del campo: Peppino detto Semà e Pasquale ‘O bell e papà’ di origine partenopea, entrambi residenti nella zona 167 di Lanciano. I tre salgono a bordo della Lancia Prisma di Guglielmo con taniche di benzina e mazze da baseball. Una volta arrivati aspettano il calar delle tenebre per cospargere di carburante le recensioni del campo, dopodiché Semà getta la cicca della sua Marlboro nel liquido. Le fiamme si alzano, dopo una decina di minuti il fumo e il calore svegliano gli abitanti dell’accampamento, inizia un fuggi fuggi generale. Allo spegnimento del rogo avvenuto grazie ai vigili del fuoco segue la tragica scoperta: un’intera famiglia ha perso la vita asfissiata dal fumo. Padre, madre e due bambini di 11 e 6 anni, vengono trovati esamini nella loro roulotte mezza scassata.

 

Intanto Pietro è solo nella sua casa a ridosso del parco della Majella. Ha appena litigato con Rosa al telefono, solo perché lei gli ha detto di sentirlo strano. La poveretta non ha fatto in tempo a dargli la bella notizia: il figlio che tanto volevano è finalmente in arrivo. Pietro beve l’ennesimo caffè, prova a chiamare Guglielmo ma niente. Quella canaglia del fratello non risponde è al Night Club con gli altri compari a festeggiare, non sanno che per vendicare il furto dei cavalli hanno ammazzato quattro persone.

 

Pietro gira come un matto per tutta la casa, a un certo punto gli sembra di vedere un gatto sul cuscino del letto, si tuffa per acciuffarlo ma l’animale scompare, pensa di aver avuto un’allucinazione, si mette supino, chiude gli occhi e l’incubo inizia. Torna la Pandafeca, Pietro la vede su di sé, è paralizzato, vuole muoversi, ma non ce la fa. Cerca di sputare, la saliva salvifica che allontana il male non esce. Sofia dagli occhi chiari questa volta gli ha tappato la bocca. L’uomo si contorce, si dimena, lotta contro qualcosa che lo sovrasta, lo opprime, lo soffoca proprio come quei poveri bambini rom morti qualche ora prima. Un triste valzer di morte che segue le orme della strega. Di colpo Sofia toglie la mano e bacia Pietro chissà forse pensando ad Ernesto. L’uomo cede alla puttana di Satana che ormai lo ha completamente soggiogato. Si lascia andare a una passione malata che presto lo sfinirà. All’improvviso, Pietro apre gli occhi, è sopravvissuto alla notte. Ha in bocca un sapore di sangue rappreso. Prova ad alzarsi ma è privo di forze, un dolore al petto lo blocca nei movimenti. Sente speranzoso il rumore di una macchina, è Rosa, che preoccupata per il marito, è tornata qualche giorno prima del previsto. La sensazione della donna era giusta. Trova l’amato in uno stato pietoso, ha un aspetto scheletrico, sembra che qualcuno gli abbia succhiato la vita, chiama i soccorsi. Pietro ha avuto un infarto. Rosa lo tiene per mano, prima di lasciarlo ai sanitari gli dice di aspettare un bambino, gli strappa un sorriso, l’ultimo. All’ospedale di Castel di Sangro arriverà cadavere. La maledizione dell’albero genealogico ha fatto un'altra vittima.

 

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